
L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami.
By Alessandro in Poesie e libri
Un brano tratto dal libro L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami.
Non è il migliore libro di Murakami né il mio favorito ; diciamo che nella mia personale classifica è fra i primi cinque.
Da leggere e rileggere, spero che piaccia a qualcuno.
Prima di uscire Kumiko venne da me e mi chiese di tirarle su la cerniera del vestito. Era un abito che la fasciava stretta e tirare su la cerniera sulla schiena richiese un po’ di cautela. Da dietro le sue orecchie veniva un profumo molto buono. Un odore che si addiceva meravigliosamente a una mattina d’estate.
Per un bel po’ rimasi con le mani in mano a guardare il soffitto. Cercavo di pensare ad altro, ma non riuscivo a concentrarmi su nulla, il cervello non mi funzionava bene. Mi ricordavo della schiena lattea e satinata di Kumiko quando le avevo tirato su la cerniera del vestito, del profumo dietro l’orecchio. Mi venne voglia di fumare, dopo tutto quel tempo. Di portarmi una sigaretta alla bocca, accenderla, e mandare giù il fumo dentro i polmoni. Se avessi potuto fumare mi sarei sentito un po’ più calmo, pensai. Ma non avevo sigarette. Mi rassegnai ad andare a prendere le caramelle al limone e me ne misi in bocca una.
[…] La sera in cui accompagnai il tenente Mamiya alla fermata dell’autobus, Kumiko non tornò a casa.L’aspettai leggendo e ascoltando musica, ma quando la lancetta dell’orologio segnò le dieci rinunciai e andai a letto. Mi addormentai con la luce accesa, senza rendermene conto. Quando mi svegliai erano quasi le sei del mattino. Fuori dalla finestra cominciava appena a far giorno, sentivo cinguettare gli uccelli al di là delle tende sottili. Di fianco a me nel letto mia moglie non c’era. Il cuscino bianco era ancora bello gonfio, prova che nessuno ci aveva posato la testa durante la notte. Il suo pigiama leggero, fresco di bucato, era accuratamente piegato sul comodino. L’avevo lavato e piegato io. Spensi la lampada di fianco a me, e trassi un profondo respiro, cercando di controllare il trascorrere del tempo.
In pigiama, feci un giro di perlustrazione nella casa. Andai in cucina, percorsi con lo sguardo il soggiorno, esaminai lo studio. Controllai in bagno e nella toilette, e per puro scrupolo perfino dentro l’armadio a muro. Nessun segno della presenza di Kumiko. L’intera casa sembrava più fredda e silenziosa del solito; aggirandomi lì dentro da solo avevo l’impressione di disturbare senza motivo quell’ambiente tranquillo.
Non avendo nient’altro da fare, andai in cucina e misi a scaldare dell’acqua. Quando bollì mi preparai un caffè, mi sedetti al tavolo e ne bevvi un sorso. Poi tostai delle fette di pane e tirai fuori dal frigo l’insalata di patate. Era un sacco di tempo che non mangiavo da solo il mattino.
Mi venne in mente che da quando io e Kumiko ci eravamo sposati non ci era mai successo di non fare colazione insieme neanche una volta.
Spesso avevamo pranzato separatamente, qualche volta anche cenato. Però a colazione ci tenevamo a stare insieme, a qualunque costo, tra noi era quasi una tacita intesa, una sorta di rito. Potevamo coricarci tardissimo la sera, ma il mattino ci alzavamo per tempo, preparavamo un pasto come si deve, e compatibilmente con il tempo a nostra disposizione ce lo gustavamo con calma in compagnia l’uno dell’altra.
Quella mattina però Kumiko non era con me. In silenzio mi accinsi a bere il mio caffè e a mangiare il mio pane. Di fronte a me c’era solo una sedia vuota. Guardandola, mi ricordai dell’acqua di colonia che Kumiko aveva addosso il mattino precedente.
[ .. ] Mi venne in mente la sua liscia schiena di porcellana, che avevo intravisto il mattino prima quando le avevo tirato su la cerniera del vestito.
Stranamente il caffè sapeva di sapone, il primo sorso mi aveva lasciato in bocca un gusto sgradevole. Lì per lì pensai che fosse solo un’impressione, ma al secondo sorso di nuovo sentii quel sapore. Vuotai la tazza nel lavandino, ne presi una pulita, vi versai altro caffè e lo assaggiai. Sempre lo stesso gusto di sapone. Non riuscivo a spiegarmelo, avevo lavato bene la caffettiera, e l’acqua non aveva nulla di anormale. Eppure non c’era niente da fare, il caffè sapeva di sapone, o di latte detergente. Gettai quello che era nella caffettiera e cominciai a scaldare altra acqua, ma a un certo punto mi stufai e piantai tutto lì. Non avevo poi tutta questa voglia di un caffè, riempii una tazza d’acqua del rubinetto e la bevvi, andava bene lo stesso.
[…]
Aspettai che fossero le nove e mezza, poi chiamai l’ufficio di Kumiko. Alla ragazza che mi rispose chiesi di parlare con la signora Okada. La signora Okada non sembrava essere arrivata, mi informò. Ringraziai e riattaccai. Allora mi misi a fare pulizia, come faccio sempre quando sono agitato. Ammucchiai giornali e riviste in un fascio e li legai con una corda, strofinai bene il lavello della cucina e gli scaffali della credenza, pulii il gabinetto e la vasca da bagno. Lavai specchi e vetri delle finestre con l’apposito prodotto, tolsi le bocce delle lampade e le sciacquai. Tirai via le lenzuola, le misi in lavatrice e ne sistemai di pulite.
Alle undici provai di nuovo a chiamare l’ufficio di Kumiko. La stessa ragazza mi diede la stessa risposta: la signora Okada non si era ancora vista.

May Kasahara – L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami.
– Aveva previsto di assentarsi, oggi? – chiesi.
– Non che io sappia, – rispose l’impiegata senz’ombra di perplessità nella voce, limitandosi a comunicarmi i fatti così com’erano.
In ogni caso, non era normale che alle undici Kumiko non fosse ancora arrivata. Nelle redazioni delle riviste di solito gli orari sono piuttosto elastici, ma in quegli uffici non era così. Pubblicando un periodico che selezionava prodotti sani e naturali, avevano a che fare con ditte di alimentari, aziende agricole, scrittori, medici, tutta gente che si mette al lavoro di buon mattino, e la sera finisce presto. Di conseguenza Kumiko e i suoi colleghi dovevano essere in ufficio alle nove, e tranne che nei periodi di eccezionale lavoro, alle sei del pomeriggio erano liberi.
Andai in camera da letto e diedi un’occhiata nell’armadio, controllai gli abiti che vi erano appesi, le gonne, le camicette. Se se ne fosse andata definitivamente, Kumiko avrebbe portato con sé i suoi vestiti. Ovviamente non ricordavo tutti quelli che aveva, non sapevo bene neanche quanti ne avessi io, figurarsi se ero in grado di fare una lista completa dei suoi. Però mi era successo spesso di portarli in tintoria e andarli a riprendere, e sapevo grosso modo quali metteva più sovente, e a quali teneva di più. Per quanto mi ricordavo, c’erano tutti, non ne mancava neanche uno.
Inoltre Kumiko se n’era andata di corsa, non aveva certo avuto il tempo di portare via nulla. Per scrupolo, ripassai nel pensiero la sequenza del mattino precedente, quando lei era uscita di casa. Provai a ricordarmi com’era vestita. Che borsa aveva. Era quella solita a tracolla che usava per andare in ufficio, ci cacciava dentro alla rinfusa la sua agenda, qualche cosmetico, il portafogli… la penna, il fazzoletto, dei kleenex. Troppo piccola per poterci mettere degli indumenti.
Aprii i suoi cassetti. All’interno erano disposti con ordine gioielli, calze, occhiali da sole, biancheria, magliette. Non riuscivo a rendermi conto se mancasse qualcosa. Poteva darsi che qualche capo di biancheria e dei collant nella borsa ci stessero. Ma a pensarci bene, perché avrebbe dovuto portarsi dietro roba del genere, poteva comprarla facilmente ovunque.
Andai nel bagno e controllai ancora una volta il suo cassetto. Anche lì era difficile notare la mancanza di qualche prodotto specifico, c’erano solo cosmetici e gioielli fantasia, cacciati dentro alla rinfusa. Tolsi il tappo all’acqua di colonia di Christian Dior, e di nuovo l’annusai. Il profumo era sempre lo stesso, una fragranza di fiori bianchi particolarmente adatta a un mattino d’estate. Di nuovo mi tornò in mente l’orecchio di Kumiko, e la sua schiena bianca.
Tornai nel soggiorno e mi buttai sul divano. Poi chiusi gli occhi, e stetti in ascolto. L’unico rumore che si sentiva era il suono della sveglia che batteva il tempo. Non si udivano passare macchine, né cantare uccelli, nulla. Non sapevo più cosa fare. Sollevai il ricevitore con l’intenzione di telefonare ancora una volta in redazione, e composi il numero, ma al pensiero di sentire la solita ragazza che mi dava la solita risposta riattaccai, era troppo deprimente. Ormai non mi restava altro che starmene lì ad attendere, non potevo muovermi in nessun’altra direzione. A meno che lei mi avesse lasciato. Non ne vedevo la ragione, ma era una possibilità. Kumiko, però, non mi avrebbe mai abbandonato senza dire una parola, non era da lei, anche a supporre che fosse andata così. Se avesse voluto lasciarmi, avrebbe cercato nella misura del possibile di spiegarmene le ragioni precise, su questo non avevo dubbi.
E se le fosse successo un incidente per la strada? Magari era stata investita da una macchina e l’avevano portata all’ospedale. Era senza conoscenza e le stavano facendo una trasfusione di sangue. A quel pensiero il cuore prese a battermi forte. Ma nella sua borsa c’erano la patente, la carta di credito, il certificato di residenza. In un’eventualità del genere, dall’ospedale o dal posto di polizia mi avrebbero già chiamato.Mi sedetti nella veranda e mi misi a guardare svagatamente il giardino. In realtà non vedevo niente, non pensavo a niente, per quanti sforzi facessi non riuscivo a concentrare la mia attenzione su nulla in particolare. Mi tornava di continuo davanti agli occhi la schiena di Kumiko quando le avevo tirato su la cerniera del vestito. Sentivo il profumo d’acqua di colonia dietro il suo orecchio.
Poco dopo l’una suonò il telefono. Balzai in piedi e andai a rispondere.
– Pronto, è casa Okada? – chiese una voce di donna. Era Malta.
– Sì, – risposi.
– Sono Kanō Malta. Le telefono a proposito del suo gatto.
– Il gatto? – risposi distrattamente. Me ne ero completamente scordato. Già, il gatto… ormai mi sembrava una storia remota.
– Il gatto che lei stava cercando, – precisò Malta.
– Sì, sì, certo, – dissi.
Dall’altra parte del filo Malta rimase qualche istante in silenzio, come se stesse valutando la situazione. Poteva darsi che dal tono della mia voce avesse intuito qualcosa. Mi schiarii la gola e spostai il ricevitore nell’altra mano.
– A meno che non succeda qualcosa di straordinario, penso che non lo ritroverà, – disse lei dopo un po’. – Sono desolata, ma è meglio che si metta l’animo in pace. Se ne è andato, probabilmente non tornerà più.
– A meno che non succeda qualcosa di straordinario? – chiesi.
Seguì un lungo silenzio. Io stavo aspettando che lei ricominciasse a parlare, tendendo il ricevitore fermo contro l’orecchio, ma dall’altra parte del filo non si sentiva neanche respirare. Quando già cominciavo a domandarmi se non avesse riattaccato, Malta finalmente riprese a parlare.
– Signor Okada, – disse, – può darsi che la mia domanda sia indiscreta, ma non c’è qualcos’altro in cui potrei esserle d’aiuto, oltre alla faccenda del gatto?
Non riuscii a rispondere subito, col ricevitore in mano mi appoggiai alla parete dietro di me. Mi ci volle un po’ di tempo prima di ritrovare la parola.
– Ci sono ancora molti punti oscuri, in questa storia, – dissi. – L’unica cosa chiara è che non ci capisco un accidenti. Sto solo cercando di raccapezzarmici. Comunque credo che mia moglie sia andata via -. Poi le spiegai che Kumiko la sera prima non era tornata a casa, e che quella mattina non si era ancora presentata in ufficio. Dall’altra parte del filo Malta sembrava riflettere.
– Dev’essere molto preoccupato, immagino, – disse. – Ora come ora, non mi sembra di poterle dire nulla. Ma in breve tempo è probabile che molte cose si chiariscano. Per il momento può solo aspettare. Penso che sia dura per lei, ma c’è un tempo per ogni cosa. Come il flusso delle maree, nessuno lo può cambiare. Quando è necessario attendere, bisogna limitarsi ad attendere.
– Senta, signora Kanō, lei è stata molto gentile a occuparsi della faccenda del nostro gatto, e io non ho scuse per parlarle in questo modo; ma in questo momento, mi creda, non sono dell’umore giusto per ascoltare luoghi comuni di generico buonsenso. Se devo essere sincero, mi sento perso. Non so dove sbattere la testa. E inoltre ho un brutto presentimento. Però non so assolutamente come muovermi. Capisce cosa voglio dire? Non so neanche cosa mi convenga fare dopo aver messo giù il telefono.
Quello di cui ho bisogno in questo momento sono fatti concreti, anche il più piccolo e insignificante fatto concreto. Qualcosa che possa vedere coi miei occhi, toccare con le mie mani.
Dall’altra parte del filo si sentì il rumore di qualcosa che cadeva al suolo. Qualcosa di leggero, come una perla che cada su un pavimento di legno. Poi si sentì una specie di strofinio, come se qualcuno avesse preso tra le dita un foglio di carta carbone e l’avesse tirato con forza. Sembrava che quei movimenti avvenissero in un luogo non troppo lontano né troppo vicino al telefono, ma Malta non sembrò farci caso.
– Ho capito, – disse con voce inespressiva. – Lei vuole dei fatti concreti, vero?
– Sì. Più concreti possibile.
– Allora resti in attesa di una telefonata.
– Non faccio altro che aspettare telefonate.
– Molto presto dovrebbe chiamarla qualcuno il cui nome comincia per O.
– Qualcuno che sa qualcosa di Kumiko?
– Questo non glielo so dire. Le ho dato un’informazione solo perché lei mi ha chiesto a tutti i costi dei fatti concreti. Altra cosa, ben presto si susseguiranno alcuni giorni di mezza luna.
– Mezza luna? – chiesi. – La luna che sta nel cielo?
– Esatto. La luna che sta nel cielo. Però in ogni caso, signor Okada, deve solo aspettare. Aspettare è l’unica soluzione. Allora a presto, – concluse Malta, e riattaccò.
Per pranzo decisi di prepararmi di nuovo degli spaghetti. Non che avessi fame. Anzi, non avevo quasi nessuna voglia di mangiare. Ma non potevo neanche restare indefinitamente seduto sul sofà ad aspettare che squillasse il telefono. Avevo bisogno di darmi un obiettivo preciso e di muovermi. Misi l’acqua nella pentola e accesi il fuoco. Aspettando che bollisse preparai un sugo di pomodoro, e accesi la radio. Trasmettevano una sonata di Bach per violino solo. L’esecuzione era ottima, ma aveva un non so che di irritante. Non sapevo se la cosa dipendesse dal violinista o dalle mie condizioni spirituali, ma a ogni modo spensi, e continuai a cucinare in silenzio. Scaldai l’olio d’oliva, vi misi a rosolare aglio e cipolle affettate, e quando cominciarono a prendere colore versai nella padella i pomodori tagliati a pezzetti, cui avevo già tolto l’acqua. Non mi dispiaceva maneggiare il coltello e cucinare qualcosa, c’era in quei gesti una precisa sensazione tattile, un rumore, un odore.
Quando l’acqua bollì vi misi il sale e un pugno di spaghetti. Poi regolai il timer a dieci minuti e lavai le stoviglie nel lavandino. Ma l’appetito non venne neanche quando ebbi gli spaghetti pronti di fronte a me. Ne mangiai appena la metà e il resto lo buttai. Il sugo che restava lo versai in un recipiente e lo misi nel frigo. Pazienza, tanto non avevo fame fin dall’inizio.
Mi ricordavo di aver letto da qualche parte, molto tempo prima, la storia di un uomo che stava aspettando qualcosa, e non faceva altro che mangiare. Dopo averci riflettuto a lungo, finalmente mi venne in mente che si trattava di un libro di Hemingway, Addio alle armi. Il protagonista (di cui non rammentavo il nome) era riuscito a passare la frontiera italiana in barca, e aveva infine raggiunto una piccola città della Svizzera, dove attendeva che la moglie partorisse. Nel frattempo entrava in continuazione nel caffè di fronte a bere e a mangiare qualcosa. Non mi ricordavo quasi la trama del libro, tutto ciò che mi tornava in mente era quel passaggio verso la fine, in cui il protagonista in un paese straniero aspettava che la moglie partorisse, mangiando di continuo. Se quella scena mi era rimasta impressa tanto bene nella memoria, era perché vi avevo sentito un forte realismo. Il fatto che a uno in quelle circostanze venisse un appetito straordinario mi sembrava letterariamente più credibile, più verosimile che non il contrario, non riuscire a mangiare niente per l’apprensione.
Però nella realtà le cose stavano diversamente. Restare con le mani in mano in una casa immersa nel silenzio, a guardare le lancette dell’orologio in attesa che succedesse qualcosa, non mi procurava il minimo appetito. A un certo punto un pensiero mi attraversò la mente, se mi succedeva tutto questo, non era forse perché mancavo di realismo letterario? Come se fossi diventato un personaggio di un brutto libro che avevo scritto io stesso. Come se qualcuno mi stesse rinfacciando di non essere abbastanza reale. E magari era proprio così.
Il telefono squillò poco prima delle due pomeridiane. Mi precipitai a rispondere.
– È casa Okada? – disse una voce maschile che non avevo mai sentito prima, una voce bassa e tranquilla, di un uomo giovane.
– Sì, – risposi in tono un po’ teso.
– Gli Okada al 26 interno 2?
– -Sì.
– Qui è il negozio di liquori. Grazie per la preferenza che ci accordate. Se per lei va bene, mentre faccio il mio giro per riscuotere i pagamenti, passerei un momento.
– I pagamenti?
– Sì, due casse di birra e una di succo di frutta.
– Sì, va bene. Penso che sarò in casa ancora per un po’, – risposi. E la nostra conversazione si concluse lì.
Dopo aver posato il ricevitore, cercai di capire se in quella conversazione ci fosse qualche informazione riguardante Kumiko. Ma sotto qualunque luce la considerassi, era solo una breve telefonata di routine da parte del commerciante di liquori che voleva incassare i suoi soldi. In effetti avevo ordinato della birra e del succo di frutta, che mi erano stati puntualmente consegnati. Trenta minuti dopo il garzone del negozio arrivò, e gli pagai quanto gli dovevo.
– È al corrente dell‘incidente che è successo stamattina, signor Okada? – chiese. – Davanti alla stazione, verso le nove e mezza.
– Un incidente? – chiesi allarmato. – Chi è che ha avuto un incidente?
– Una bambina piccola. È stata investita da un camioncino che faceva retromarcia. Pare sia grave. Io sono passato di lì subito dopo, le assicuro che come inizio di giornata, non era uno spettacolo tanto allegro. Sono pericolosi i bambini piccoli. Quando si fa marcia indietro nei retrovisori laterali non si vedono, ci sono degli angoli morti. Conosce la tintoria davanti alla stazione? È successo proprio lì davanti. In quel punto ci sono un sacco di biciclette parcheggiate, scatole di cartone accatastate, non si riesce a vedere bene.
Dopo che il garzone del negozio di liquori se ne fu andato, non sopportai più di starmene dentro casa a girarmi i pollici. Mi sembrava che tutt’a un tratto l’ambiente si fosse ristretto, fosse diventato caldo, buio, soffocante. Mi infilai le scarpe, e tanto per cominciare uscii di casa. Non chiusi neanche a chiave. Lasciai le finestre aperte e non spensi la luce in cucina. Mi misi a gironzolare per il quartiere senza una meta, succhiando una caramella al limone. Ripensando alla conversazione col garzone, mi venne in mente che non ero passato a ritirare la roba che avevo portato in tintoria, la camicetta e la gonna di Kumiko. Avevo lasciato lo scontrino a casa, ma in qualche modo mi sarei arrangiato, pensai.
Il quartiere mi sembrava un po’ diverso dal solito. Tutti quelli che incontravo per la strada avevano qualcosa di innaturale, di artificiale. Camminando li osservavo bene in faccia a uno a uno, chiedendomi che tipo di persone fossero. In quali case potevano mai abitare, che famiglia avevano, che razza di vita facevano? Chissà se andavano a letto con donne diverse dalla propria moglie, con uomini diversi dal proprio marito? Chissà se erano felici? Chissà se sapevano di apparire innaturali, artificiali?
Davanti alla tintoria restavano ancora tracce evidenti dell’incidente. Sulla superficie della strada c’erano delle linee bianche, probabilmente tracciate col gesso dalla polizia. Alcune persone che si trovavano lì per fare compere commentavano con espressione grave. Ma all’interno del negozio l’atmosfera non era cambiata. Il solito stereo nero diffondeva la solita musica d’ambiente, sul fondo un condizionatore antiquato faceva un gran baccano, e il vapore del ferro da stiro saliva a fiotti verso il soffitto. Il pezzo era Ebb Tide. L’arpa, quella di Robert Maxwell. Come sarebbe stato bello andare al mare, pensai. Mi immaginai l’odore della spiaggia, il rumore delle onde che si frangevano. Il volo dei gabbiani, una lattina di birra ben ghiacciata.
Dissi al gestore che avevo dimenticato lo scontrino.
– Le avevo portato una camicetta e una gonna, venerdì o sabato della settimana scorsa.
– Il signor Okada, vero? Okada… – disse lui sfogliando un quaderno. – Ah, eccole qui. Una camicetta e una gonna. Ma è già venuta a prenderle sua moglie.
– Veramente? – chiesi sorpreso.
– Sì, è passata ieri mattina. Gliele ho consegnate io stesso, me lo ricordo bene. Mi è sembrato che stesse andando in ufficio. Mi ha portato anche lo scontrino.
Non trovando le parole, lo guardai in faccia in silenzio.
– Provi a chiedere a sua moglie, più tardi. Ne sono assolutamente sicuro, – disse il gestore. Poi tirò fuori una sigaretta dalla scatola posata sulla cassa, se la portò alla bocca e la accese con un accendino.
– Ieri mattina? – chiesi io. – Non ieri sera?
– Ieri mattina, ieri mattina. Verso le otto. Sua moglie è stata la prima cliente della giornata, per questo me la ricordo bene. Cioè… quando la prima cliente è una giovane donna la giornata comincia bene, no?
– Allora è tutto a posto, – risposi con una voce che non sembrava la mia, incapace di fare un sorriso, – non sapevo che fosse già passata mia moglie.
Il gestore della tintoria annuì, mi fissò brevemente in viso, schiacciò la sigaretta dalla quale aveva tirato solo una boccata o due, e riprese a stirare. Sembrava che qualcosa in me lo interessasse. Che volesse dirmi qualcosa. Poi parve decidere di farsi i fatti suoi. Anche io avevo molte domande da porgli: che aria aveva Kumiko quando era passata a ritirare la roba, che cosa teneva in mano? Però mi sentivo confuso, e avevo la gola terribilmente secca. Per il momento volevo soltanto sedermi da qualche parte e bere qualcosa di freddo, altrimenti non sarei riuscito a mettere insieme un solo pensiero.
Uscito dalla tintoria entrai in un caffè lì vicino, e ordinai un tè freddo. All’interno del locale faceva fresco, e io ero il solo cliente. I piccoli altoparlanti attaccati alla parete diffondevano un arrangiamento orchestrale di Eight Days a Week dei Beatles. Pensai di nuovo al mare. Immaginai di avanzare a piedi nudi sulla spiaggia verso il bordo dell’acqua. La sabbia era calda da scottare, il vento portava un forte odore salmastro. Respiravo a fondo, e guardavo il cielo alto sopra la mia testa. Se voltavo le mani in su potevo sentire sui palmi l’ardore del sole estivo. Infine le onde fredde venivano a lambirmi i piedi.
Avevo un bel pensarci e ripensarci, ma il fatto che Kumiko fosse passata a ritirare i vestiti in tintoria prima di andare in ufficio non mi quadrava. Così facendo sarebbe stata obbligata a prendere un treno affollato con quella roba appena stirata sulle braccia. La stessa cosa al ritorno. Le sarebbe stata d’impaccio, e soprattutto a cosa sarebbe servito portarla in tintoria per poi ridurla in quel modo? Era da escludere che Kumiko facesse una cosa tanto stupida, lei così maniaca per la cura e la pulizia dei vestiti, quando poteva benissimo passare dalla tintoria tornando dall’ufficio. Se pensava di far tardi, sarebbe bastato che chiedesse a me di andarci. No, una sola ipotesi era plausibile. In quel momento Kumiko aveva già deciso di non tornare a casa. Se ne era andata via con la gonna e la camicetta sul braccio, così aveva il minimo indispensabile per cambiarsi, il resto poteva comprarlo ovunque. Aveva con sé il bancomat e la carta di credito. Persino il libretto di un conto suo personale per i suoi risparmi. Poteva andare anche in capo al mondo, se voleva.
E poi forse era con qualcuno, con un uomo. Quale altra ragione poteva avere per andarsene di casa? Probabilmente nessuna.
Poteva darsi che si trovasse in una situazione molto difficile. Era sparita lasciando lì tutti i vestiti e le scarpe, lei che amava assortire bene abiti e accessori, e ne aveva gran cura. Abbandonare tutto e andarsene quasi senza nulla addosso presupponeva una decisione ben precisa in merito. Eppure lei era andata via senza pensarci due volte, perlomeno così sembrava, portando con sé solo una gonna e una camicetta. Anzi, probabilmente in quel momento i vestiti erano l’ultima della sue preoccupazioni.
Accasciato sul sedile del caffè, ascoltavo distrattamente la musica di sottofondo, insopportabilmente sterilizzata, e immaginavo Kumiko nell’atto di salire sul treno affollato, i vestiti tenuti alti, ancora avvolti nel loro involucro con la gruccia di fil di ferro. Mi ricordai il colore di quello che indossava, l’odore dell’acqua di colonia dietro il suo orecchio, e la sua schiena satinata e perfetta. Mi sentivo stanchissimo. Avevo l’impressione che se avessi chiuso gli occhi, sarei finito chissà dove, a vagare sperduto da qualche parte.
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